Il viola dei mirtilli
In soggettiva d'ordine mentale
ricordo, su ogni cosa, i miei mirtilli
selvatici tra pascoli e crinale.
Giornate d'un azzurro disarmante
(solo in montagna se ne può godere)
col cielo-mare riverso sul mondo.
Uno chalet di amici di famiglia
lampade ad olio, candele, il camino
acceso, mentre fuori il porticato
troneggiava, sprezzante, sopra il prato.
Ed ogni giorno lunghe passeggiate
con l'aria fredda. Incauto il pensiero
restava, nel suo nascere, gelato.
Un paio di chitarre ed un falò
canzoni d'oratorio nel bailamme
del vociare confuso di bambini.
Il prete (ma che spasso!) straparlava
più che da sobrio. In bettole arringava?
Colori puri: il verde, il blu. Il candore
del latte ed una mosca nel paiolo
a galla d'una favola imperfetta.
Finiva la vacanza: macchie d'erba
lentiggini sul naso, scatoline
di arachidi salate. Ed i mirtilli
riempivano di gioia. Dal finestrino
la mia montagna che correva via.
Esercizio poetico di Leo Sinzi (zio-silen) tratto dal racconto di Nadia Rizzardi
(Ganimede)
pubblicato il 23 Novembre 2016 nella Vetrina del Club dei
Poeti.
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Biografie in quota
Dell'infanzia
si ricordano alcuni dettagli con straordinaria nitidezza. Sarebbe
interessante capire se la tendenza a dividere quelli belli dagli
spiacevoli, sia normale procedura o soggettiva propensione per l'ordine
mentale.
Ricordo sopra ogni cosa i mirtilli selvatici, l'elemento decorativo di ogni giornata trascorsa sul limitare dei pascoli.
La casa di vacanze era uno chalet spartanamente rifinito, di proprietà
di amici di famiglia. Niente elettricità o acqua corrente; a sera,
serviva occasionalmente essere accompagnati nelle varie stanze, perché
capitava che gli elementi di illuminazione scarseggiassero ma
l'atmosfera era bella e calda.
C'erano lampade a olio, candele e il camino sempre acceso mentre, fuori,
un porticato privo di parapetto, troneggiava sul prato sottostante,
sprezzante di ogni ragionevole norma di basilare sicurezza.
Le giornate erano di un azzurro disarmante come solo in montagna se ne
possono godere, tanto che il cielo pareva caderci addosso come un mare
riverso sul mondo.
Le interminabili passeggiate lungo i sentieri erano la colonna
vertebrale di quasi ogni giornata che, come sempre, iniziava con un'aria
così fredda da gelare sul nascere ogni pensiero incautamente concepito.
Naturalmente, si rendeva necessario utilizzare l'acqua con estrema
parsimonia, perciò capitava che, durante la giornata, Pier ed io ci
recassimo di soppiatto come topolini, alla fontana esterna
dell'alberghetto adiacente allo chalet per lavarci le mani;
puntualmente, risuonava nella vallata la voce stridula della
proprietaria volta a ricordarci la destinazione di acqua corrente e
sapone ai clienti dell'albergo che, a differenza nostra, fruttavano ben
più dell'acquisto di qualche confezione di caramelle Valda o pacchetto
di arachidi salate.
La padrona era grassa, rubiconda e tirchia e, a memoria, direi che
indossasse sempre, o spesso, qualcosa di rosso; chissà se è per questo
motivo che vado poco d'accordo con il rosso; di fatto, però, si chiamava
Rosa e il rosa mi piace, forse perché si trova nella gamma dei toni
freddi, come il viola dei mirtilli. (Che strano a volte l'intersecarsi
bizzarro delle situazioni della vita).
Ad ogni modo è curioso come nella mente di un bambino si possa insinuare
l'dea che, l'atto normale di lavarsi le mani, possa celare un gesto
passibile di rimprovero. Oltretutto, fin da piccoli, ci educano a farlo
in maniera frequente e meticolosa ma si sa che, i grandi, quando ci si
mettono, sono maestri nel confondere le idee così come nel contraddirsi.
Il rapporto con l'acqua era un elemento cardine delle nostre giornate:
essa rappresentava un bene prezioso da centellinare, una possibile fonte
di rimprovero, un diversivo nel momento in cui, la scarsità delle
riserve, ci costringeva a scendere a valle per i rifornimenti. Una volta
io e Pier, rimasti soli a casa, rimanemmo chiusi fuori; mi ricordo la
sete e i tentativi di entrare dalla finestrella socchiusa del bagno. Non
ricordo nemmeno come andò a finire ma mi rimarrà il dubbio sul fatto
che Rosa ci avrebbe dissetati gratis...
Ricordo invece la volta in cui, gli adulti, dimenticarono di inserire le
bottiglie di acqua tra i viveri per un pick-nick previsto nel bel mezzo
del nulla più assoluto (intendo cielo, roccia, muschi e licheni a
chilometri dalla civiltà) e le successive discussioni su cosa potesse
essere più dannoso tra il farci morire disidratati o l'iniziarci
all'alcolismo precoce; ecco, di quell'esperienza, ricordo la rabbia
furente verso le loro risatine trattenute a stento e il disgusto per
l'odore dell'alcol ma, tutto sommato, divertente lo fu per davvero.
Per quanto riguarda le serate, a volte venivano vivacizzate da alcuni
bambini che sopraggiungevano assieme al sacerdote di una parrocchia giù a
valle e ad alcuni animatori, che si sistemavano per una breve
permanenza nei locali adiacenti alla chiesetta sul promontorio; il falò,
un paio di chitarre, canzoncine demenziali da oratorio e il bailamme di
un vociare indistinto di grandi e bambini, movimentavano le serate,
rasentando il più alto concetto di vita mondana che si potesse
immaginare in un microscopico centro di villeggiatura montano e
sperduto.
In quelle occasioni, detestavo l'idea di salire alla chiesetta per via
di Carla; Carla era una mia coetanea ed io evitavo in ogni modo lei ed i
suoi lunghi riccioli neri perché era altera, prepotente, dispettosa,
sicura di sé e mi terrorizzava. Però il prete era oggettivamente uno
spasso: beveva più di un frequentatore di bettole e, quando ubriaco,
straparlava più che da sobrio.
Comunque, l'andarci continuava a non piacermi, lo facevo solo se
obbligata da mia madre, intenzionata a sanare le problematiche di una
mia presunta patologica tendenza all'isolamento.
Mi piaceva solo stare con Pier o con sua sorella maggiore, quella che si
era bruciata i capelli con il fuoco. Ciò che brucia può farti stare
meglio o condizionarti la vita per sempre, questo lo sapevo.
È curioso come nella mente di un bambino possa insinuarsi l'idea che,
bruciarsi i capelli con il fuoco del camino, possa essere la conseguenza
di uno stato di ordinaria distrazione domestica di poco conto. Con il
senno di poi, capii che non era poi così normale. Come tante altre
cose, del resto.
Le giornate erano intense e ricordo il giorno in cui Pier mi prese
perfino per mano, salendo lungo un sentiero scosceso. Pensai che sarebbe
stato bello avere un fratello così.
C'erano le scivolate sull' erba, le corse, il giocare a nascondino nei
tetri cunicoli di forte "Cima Ora", completamente in rovina, uno
scenario spettale da film dell'orrore, a pensarci a distanza di anni ma,
alla fin fine, di rischi ce n'erano pochi. Più pericolose erano le
arrampicate sulle rocce vicino casa che concretizzavano il serio rischio
di rompersi la testa e a confronto del quale, l'incontro con qualche
piccola occasionale viperetta più spaurita di noi, era cosa da poco.
Ad un mezzo chilometro da casa c'era una giovane conifera che ci
divertivamo a vessare per via della sua caratteristica forma a "collo di
giraffa" che così bene si prestava alle nostre cavalcate contese.
Qualche anno fa, sono tornata a trovare Collo di Giraffa, con il
rossetto cangiante, il push-up, le treccine e gli shorts, per farle
vedere che ero cresciuta ma non così tanto da non permetterle di
riconoscermi; sinceramente mi deluse un pochino trovarla così tanto
ingrassata ma alle signore certe cose non è opportuno farle notare,
perciò le dissi ridendo:" ehi Collo di Giraffa, ti sei fatta grande e
robusta nonostante le nostre angherie! Ora, volendo, ne porti quattro,
di me..."
I colori in montagna sembrano sempre più puri: il verde, l'azzurro, il
candore del latte del burro e dei formaggi nelle malghe..... una volta
vidi una mosca che galleggiava nel paiolo del latte, perché le fiabe non
sono mai perfette fino all'ultima goccia di sangue.
Stop. Fine del mio rapporto con i prodotti di malga. Mangiavo solo
quelli inseriti nei piatti a titolo di ingrediente basilare ma storcendo
il naso per tutto il tempo.
Solo i mirtilli selvatici non ti tradivano mai: erano piccoli tesori che
comparivano all'improvviso nell'assoluto silenzio della vegetazione
montana e riempivano gli occhi di una gioia istantanea e priva di
compromessi.
E poi niente altro o forse moltissimo altro ma scavare nei ricordi richiede pazienza.
Il crocifisso di legno sulla collinetta a cui ci si appoggiava per fare
la conta (quante scemenze subite da quel povero cristo di legno
malamente intagliato), mio fratello e il fratello maggiore di Pier primi
alla maratona sotto il diluvio universale, quel malgaro con la barba
che credevo avesse ottant'anni mentre probabilmente raggiungeva a stento
i trenta; poi i testi delle canzoni degli anni ottanta di cui non
capivo bene il senso, i discorsi scomodi tra gli adulti che violavano la
verginità della psiche così candida, le loro menate mentali che, a
volte, parevano più cupe delle ombre sinistre che dilagano lungo gli
argini al calare della sera.
Adoravo le estati in montagna e piangevo sempre di nascosto, quando
sopraggiungeva l'ora di tornate a casa ma in breve tutto finiva, le
giornate riprendevano il corso normale e, tornare a litigare con quella
rompipalle ipocondriaca di mia cugina, non era poi così male, dopotutto,
i bambini sono facili a convincersi che di normalità ne esista una sola
e che sia inevitabilmente la loro.
Della vacanza rimaneva qualche macchia di erba, le lentiggini sul naso,
scatoline di arachidi salate, di mirtilli più nemmeno l'ombra. Solo
tracce in qualche tema per la scuola, sistematicamente criticato da mia
madre.
Racconto e disegno di Nadia Rizzardi (Ganimede)